– Giacomo mi hai sentito?
Giacomo era seduto sulla poltrona, davanti alla tv: la concentrazione, anzi, la tensione al massimo. Delle parole di sua moglie, nemmeno un’eco lontana.
– Hai sentito quello che ti ho detto?
Ancora nessuna risposta. Questa volta Marta non si voleva rassegnare, troppo spesso lo aveva fatto, questa volta voleva e doveva essere ascoltata.
– Giacomo! Ti sto dicendo che noi non parliamo!
Un sussulto, un movimento del capo appena accennato, ed ecco… le parole di Marta sembravano finalmente essere arrivate a bersaglio; l’insistenza e soprattutto il volume della sua voce, più alto del solito, avevano ottenuto l’effetto sperato.
– Che cosa hai detto cara? Non parliamo?
Giacomo era ancora troppo distratto. Balbettava qualcosa, ma soprattutto cercava di prendere tempo.
– Non so… non so… scusa amore, mi lasci finire di vedere la partita? Se perdiamo stasera siamo eliminati, non voglio nemmeno immaginarlo… sai gli sfottò domani in ufficio?!
Lei invece aveva deciso di non fermarsi. Incoraggiata dal parziale successo ottenuto, era riuscita ad avere un minimo di attenzione, e quelle risposte le voleva subito.
– Vedi che ho ragione, non parliamo, e a te questo non importa minimamente!
– Ma che cosa dici, certo che mi importa… ma… ma perché proprio adesso? E poi, di cosa vorresti parlare? A cena ti ho già raccontato della mia giornata e tu mi hai raccontato della tua, mi hai detto di tua madre e dei suoi esami del sangue e, ricordo bene, mi hai anche parlato della tua amica che ha cambiato casa…
Giacomo voleva dimostrare che aveva prestato attenzione ad ogni sua parola. Pensava che in questo modo sarebbe riuscito ad evitare quella discussione o, quanto meno, a ritardarla.
– Questo non è parlare! É il bollettino della giornata, l’elenco dei fatti accaduti, una sequenza di comunicati reciproci! Non è un dialogo!
I toni si stavano progressivamente alzando. Una partita molto più pericolosa rispetto a quella trasmessa in tv era ormai iniziata nel salotto di casa; una di quelle partite che non durano solo novanta minuti e di cui è impossibile prevedere il risultato finale, anche perché, quasi sempre, finisce senza vincitori.
– Sai… questa sera proprio non ti capisco… e poi… cos’è questa novità del dialogo? Io ho l’impressione che tu sia scocciata perché guardo la partita, forse vorresti vedere un altro programma. Ti prometto che domani, prima di tornare a casa, passo al centro commerciale e ti compro un televisore, così potrai vedere le tue trasmissioni preferite ed io…
Pensava di avere avuto un’idea brillante, anzi, risolutiva. Purtroppo, non aveva capito, e continuava a non capire, ma proprio in quell’istante…
– Gol! Gol! Abbiamo segnato! Ti rendi conto, sarà stato un tiro da quaranta metri! Una cosa incredibile! Hai visto?
Assolutamente indifferente a quella straordinaria impresa sportiva, Marta procedeva ormai imperterrita verso il suo obiettivo, come un generale che, rompendo ogni indugio, lancia il suo esercito contro il nemico per lo scontro finale.
– È impossibile che tu non capisca! Proprio non ti rendi conto? Non lo vedi che non parliamo mai di noi, di quello che vorremmo, dei nostri sogni, di quello che abbiamo dentro?
Marta era un fiume in piena.
– Perché non mi parli dei tuoi pensieri, delle tue speranze, delle tue paure…
A questo punto Giacomo la interruppe bruscamente: ai suoi occhi era lei a non capire.
– Ma che cosa stai dicendo! Ma ti senti? Ti rendi conto?
Io sono tranquillamente seduto, anzi, mi correggo, ero tranquillamente seduto davanti alla tv a vedere una partita di calcio, e improvvisamente mi sembra che il salotto sia diventato lo studio di uno strizzacervelli e la mia poltrona si sia trasformata nel lettino dello psicanalista!
Vuoi conoscere i miei pensieri, le mie speranze, le mie paure?
Eccoti servita: in questo momento il mio pensiero è che mancano venti minuti al termine della gara, la mia speranza è che riusciamo a mantenere il gol di vantaggio fino alla fine della partita, la mia paura è che quelli pareggino all’ultimo minuto, magari su rigore!
Giusto il tempo di riprendere fiato, senza più misurare le parole:
– Comunque ho capito sai…. Queste sono le strane idee che ti mette in testa quella pazza della tua amica che, per inciso, non ha nemmeno un uomo, perché nessuno riesce a reggerla! O è tua madre, stai sempre al telefono con lei, che ti fa il lavaggio del cervello? Sempre lì a dirti che hai sbagliato a sposarmi, che sono un incapace e che guadagno poco e che se tu avessi dato retta a lei adesso…
Credi non lo sappia? Forse non ti ricordi, ma agli inizi me le raccontavi queste cose, e ridevi e mi dicevi di non prendermela “perché lei è fatta così”.
Anzi, sai cosa ti dico? Che ogni giorno che passa assomigli sempre di più alla tua cara mammina! Stessa razza!
E adesso basta… basta! Voglio vedere questi ultimi minuti in santa pace!
Attonita, lei lo guardava in assoluto silenzio, come stordita da quelle parole. Un solo pensiero le attraversava ormai la mente: come poteva essere quello l’uomo di cui, solo pochi anni prima, si era innamorata? Una volta si sarebbe messa ad urlare ma, più che rabbia, adesso c’era solo tanta delusione, e la delusione ti toglie le parole, ti blocca, ti abbatte.
In realtà la loro relazione aveva smesso di funzionare già da tempo: passata la fase di innamoramento, erano emerse le loro profonde differenze. Troppo lontani per interessi, sensibilità, visione della vita.
Per la cronaca, quella partita finì con la sconfitta della squadra di Giacomo (gli avversari ribaltarono il risultato nei minuti finali).
La loro relazione, invece, terminò qualche mese dopo, davanti a un giudice che decretò la fine della loro “partita”.
Pg
Storia di Lea
Era tempo di cambiare il piumino: fuori, l’aria tiepida cullava i primi fiori da campo, margherite, non-ti- scordar-di-me, viole, che ondeggiavano lieti tra le braccia della Primavera. Lea si diresse in cucina a fare colazione; la moka era già pronta sul fornello dalla sera precedente, un rituale che sapeva di coccola, e a cui si era abituata per darsi da sè il buongiorno. Era di buon umore quel giorno, anzi, a ben pensarci si sentiva così da un po’, da quando era cessata la tempesta nella sua mente. All’improvviso, la pioggia aveva smesso.
Alcune persone nascono in periodi di pace, altre no: lei era fra le ultime; dacché i suoi piccoli polmoni avevano iniziato a respirare, lì era iniziata la sua personalissima battaglia con la vita. Era nata già con un nemico, forse per ciò sua madre l’aveva partorita con due settimane di ritardo, come se la piccola creatura, consapevole che, una volta venuta al mondo, nulla e nessuno l’avrebbe più potuta proteggere, avesse scelto volontariamente di prolungare la propria permanenza nel ventre materno. Ogni evento, nell’esistenza di Lea, aveva subìto una sorta di spostamento in avanti: l’ultimo dente da latte glielo aveva estratto il dentista, a sedici anni; per non parlare delle mestruazioni, per le quali, a un certo punto, aveva smesso di contare le visite dai vari specialisti . Tutto in ritardo. Tutto, tranne i pensieri, il suo sentire, la percezione di ogni cosa. Ivi, era convinta, avesse avuto origine quel mare costantemente in burrasca nel quale sembrava impossibile restare a galla, o decidere soltanto di lasciarsi scuotere, abbandonandovicisi: un disallineamento tra la sua persona al di fuori e quella di dentro. Una lotta con la vita, appunto.
Mancava ancora mezz’ora all’apertura del negozio, c’era tempo per qualche esercizio di ginnastica;
《 Billy adesso no! quando torno ti gratto per bene, promesso! 》 ,
aveva così allontanato il suo inquilino peloso, dalle movenze goffe, molto dolce e docile, un gattone rosso che le aveva rubato il cuore. Billy quindi era andato a raggomitolarsi per terra, sotto la finestra da cui filtravano tiepidi i raggi del sole. Terminò lo stretching, fece una doccia e con la sua borsa blu andò a lavorare: la passione per le piante e i fiori gliel’aveva trasmessa la nonna paterna, donna d’altri tempi, tanto dura e integerrima, quanto tenera e apprensiva – almeno così era stata con lei – crescendola come una figlia, finché i ruoli non si ribaltarono e la demenza senile trasformò l’anziana in una bambina che cresceva all’indietro. Parlava di quella nonna ai suoi fiori, Lea; era un linguaggio silenzioso, di gesti e movimenti; le parole le usava poco, non le piacevano gli esseri umani, la feriva sempre un po’ non essere capita e non le andava la fatica di stare a spiegarsi ,
《 Tanto, o uno ti capisce, o non è in grado di farlo, nemmeno se stai interi giorni a provarci 》 .
Lei sicuro ci aveva provato per anni, a raccontarsi, a tentare di farsi comprendere, parlando, poi scrivendo anche, infine solo esistendo.
《 Se l’altro non sente quel che senti tu, se non è passato dalla stessa strada o perlomeno da una simile, ecco, se non c’è questo, come fa a sapere cosa provi? Può provarci, certo, se è dotato di grande empatia magari ci riesce quasi. “Quasi”, tuttavia, è una parte incompleta del tutto, un tutto che chiede di essere preso così com’è, non a frammenti.. 》 .
Aveva smesso di farsi bastare quel “quasi”, preferendo la disillusione e aprendosi alla compagnia discreta degli arbusti. L’orchidea, la regina dei fiori, l’attirava a sè con la sua superba eleganza; i gigli, che sapevano di sobrietà, le insegnavano a essere grata di ciò che aveva; le piante grasse rappresentavano l’indolenza e il saper contare sulle proprie forze, a suggerirle che, nella vita, a volte serve un po’ di cuore duro, per sopravvivere.
Lea aveva imparato a condurre la propria vita smettendo di aspettarsi dagli altri qualcosa che non sarebbe mai arrivato; aveva cessato di cercare quel qualcosa quando sua madre era morta. Fa strano come possa succedere che, una perdita all’apparenza tanto grave e devastate, col tempo e con la pazienza, restituisca un senso attraverso il quale si impara a vivere meglio, in maniera diversa, posando le armi e l’armatura, per poi essere finalmente in pace. Non era felicità, certamente non poteva chiamarsi così, ma la raggiunta consapevolezza che, sua madre, seppur avesse vissuto per altri cento anni, mai l’avrebbe compresa e accolta per la figlia che era, proprio da lì era partita la nuova forma di se stessa, più indulgente, meno rabbiosa, persino più appagata.
《 Buongiorno Lea! La trovo più in forma del solito! Oggi vado a trovare Clelia, sa?…sono passati dieci anni dall’ultima volta. Capisce? ricorda Clelia?… Beh, ci siamo sentiti al telefono ieri, mi ha detto “Vieni a trovarmi?”, così, come se nulla fosse mai mutato. Sapevo sarebbe arrivato questo giorno! Dovevo solo aspettare 》 .
Mauro si era sbagliato un’unica volta: una sbandata che lui stesso aveva ammesso alla compagna. Di lì, aveva fatto che passare il tempo aspettandola; non era il perdono che attendeva, no: era effettivamente lei che aspettava, e lei aveva impiegato dieci anni a dimenticare.
《 Quindi che fiore mi consiglia di regalarle? 》
《 Fior di loto Mauro, senza dubbio il fior di loto! 》 , il fiore della dimenticanza.
S.A.
Storia di Pablo
Pablo sembrava non provare nulla; non che non avesse mai provato qualcosa, un’emozione, ma a un certo punto, dal suo volto, un qualche dio senza pietà gli aveva cancellato l’espressione: restava sì l’uomo, il suo fisico alto, persino una bellezza sfumata tra i capelli ancora lucidi e nero corvino. Null’altro. Con gli occhi cupi fissava l’asfalto; era impegnato nell’inutile conta delle strisce pedonali, avanti e indietro, prima quelle bianche, poi gli spazi neri, in attesa che il semaforo suonasse il bip del via libera.
Si ritrovava sovente in quelle zone della mente che funzionano a “intermittenza”, come una lampadina che si sta bruciando; in effetti, credeva che quel giochetto fosse il segno evidente di una luce che, di lì a poco, si sarebbe spenta per sempre. Non aveva timore, anzi, la sola preoccupazione riguardava il dove, piuttosto del quando. Sperava succedesse in fretta, in un luogo isolato in cui la gente si sarebbe accorta per caso del suo corpo ormai freddo e rigido. L’anima, d’altronde, era già altrove da un pezzo.
In città aleggiava l’odore dell’autunno inoltrato; era solo per la spesa o piccole incombenze burocratiche che si mischiava alla folla distratta, ma non oggi. Scattato il verde, attraversò con passo rapido la strada, per ritrovarsi all’inizio della via che, un tempo, percorreva a piedi tutti i giorni: aveva lavorato lì per quasi vent’anni, circa un terzo della sua esistenza, facendo di quel posto un rifugio per se stesso, o meglio, per quella parte di sé senza pace con cui era nato, cresciuto e, alla fine, sceso a patti. Conviveva con i tormenti del passato – 《un po’ come tutti gli esseri umani》, pensava – e aveva imparato a dar loro uno spazio in cui stare. Ci fu persino un periodo in cui si svegliava quasi felice: la colazione, l’abbraccio a lei come saluto prima di andare al lavoro, la giornata che scivolava via veloce e lieta, il rientro a casa, la cena, le coccole. A volte la “normalità” riesce a diventare piacevole da vivere. Poi lo scoppio.
Un boato potentissimo. La paura. La corsa in ospedale. 《Signora è andata bene, si è salvato e si riprenderà. Purtroppo il danno all’udito è irreversibile… appena uscito da qui, consiglierei un percorso di psicoterapia》. Sordo. Pablo sordo. Pablo vivo e sordo.
Non sapeva nemmeno come dirglielo. E come! visto che non l’avrebbe più potuta sentir parlare. E non era neppure la parte peggiore, quella. Dopo una settimana di bugie, si decise: a fine pranzo si sedette accanto a lui sul letto, determinata a consegnargli un biglietto, versione finale scelta tra una lunga serie di scritti modificati e poi strappati fino alla nausea. Diceva così:
《Amore l’udito non tornerà più. Assieme ce la faremo, sei un uomo forte》. Tre frasi. Un verdetto inesorabile. Una vita da rifare.
Lo fissava, negli ultimi istanti in cui lo avrebbe visto come l’uomo che aveva amato, gli stessi in cui lui l’avrebbe fatta sentire amata.
Pablo non la compì nemmeno una vera scelta, semplicemente ingoiò quel che gli era accaduto, prima vomitando silenzi, in seguito respirandoli e basta. Senza musica, non aveva importanza comunicare, quindi neanche imparare qualsiasi stupido alfabeto per chicchessia, lei compresa. Senza musica, voleva dire da solo.
Immobile, le mani strette a pugno nelle tasche, il silenzio come unico compagno di vita da quattro lustri: così se ne stava in piedi, al principio del vicolo, con i suoi appena compiuti sessantatre anni e una pellicola ad avvolgerlo dal giorno dell’incidente. Mai una lieve lacerazione, alcuno trappo: l’esistenza compattata lì sotto, a tenere assieme un uomo in frantumi.
Perciò si trovava in quel luogo, per potersi finalmente rompere , per concedersi di riprovare qualcosa, fosse anche stato dolore: con il suo “rifugio” a pochi metri di distanza, magari un uragano di sensazioni lo avrebbe travolto, riuscendo a liberarlo. O magari no.
Questa, tuttavia, la sola speranza che era stata capace di insinuarsi al di là dell’involucro che lo separava dal mondo: costretto in un corpo che aveva perduto la parte per lui più importante, il senso di tutto, ascoltare e poi fare e insegnare musica, Pablo decise di costringerlo a sua volta, quel dannato corpo-prigione, trascinandolo proprio alla sua scuola di musica, per vedere che ne sarebbe stato di se stesso.
Una mano sul vetro freddo della vetrina. Occhi chiusi. Suoni e parole che tornavano a casa. 《Ciao maestro! oggi cosa imparo?》; 《Marta le dita devi distanziarle così, guarda me》; ora buca, giro di blues in Mi maggiore; 《Pablo, scusa l’interruzione, ma di là c’è una signora che ti vuole parlare》…
Tornavano, i ricordi; la mano nella tasca muoveva le dita sulla tastiera immaginaria della vecchia Fender bianca, come una volta. Una lacrima troppo pesante finisce a terra, macchiando l’asfalto di vita.
S.A.
Storie di uomini che perdono qualcosa
Foglio bianco e matita: la mia zona oltre confine, fuori tempo,avulsa da schematismi e noiose ripetizioni del quotidiano; qui il pensiero corre libero come un cavallo in prateria, senza méta, senza direzione. Va, semplicemente va. Dove? Lontano, il luogo suo è questo. Quando ci arriva, si siede e prende forma: ecco come nascono le storie di uomini che perdono qualcosa, personaggi inventati -simili e diversi da ciascuno di noi- , nondimeno così reali da offrire la possibilità di specchiarvisi. In fondo, chi nella vita non ha mai perso qualcosa, o qualcuno, e da lì in poi tutto è cambiato, apartire da se stessi…
S.A.
Il nome del blog
Quante volte nella nostra vita ci è capitato di assegnare dei nomi: ad un figlio, un cucciolo di cane, un gattino oppure ad oggetti inanimati ma a noi molto cari, come un peluche, un giocattolo, la nostra tazza preferita…e potrei continuare. Alcuni nomi ci vengono di getto, in altri casi dobbiamo pensarci più a lungo perché sono il risultato di ragionamenti, di meditazioni o addirittura di pensieri bizzarri. A questo punto qualcuno potrebbe obiettare che sto mettendo bambini, animali ed orsetti di stoffa, tutti sullo stesso piano. In effetti scegliere il nome per un figlio dovrebbe essere un gesto importante, di enorme responsabilità. Dovrebbe… ma non sempre è così! Anzi, a tal proposito, vi riporto alcuni dialoghi.
Prima coppia:
(Lui) “Cara, cosa dici se lo chiamiamo Giuseppe, come mio padre, così, per continuare la tradizione di famiglia?”
(Lei) “Mah, caro, non so, a mammà piacerebbe tanto Gian Filippo…”
(Ancora lui) “No, dai, allora meglio Diego, come il mio calciatore preferito!”
Seconda coppia
(Lei) “Amore, cosa ne pensi, io la vorrei chiamare Sue Ellen, come il personaggio di Dallas, sai che quella serie mi piace proprio tanto…”
(Lui) “Ma tesoro, se invece scegliessimo Linda?”
(Ancora lei) “Linda? No! Linda no! Mi ricorda l’Esorcista!”
(Ancora lui) “Ma no, guarda che io pensavo a quella della canzone…”
Terza coppia
(Lui) “Se maschio lo chiamo (notate che non dice “chiamiamo”) Benito!
(Lei, ma con timore) “Scusa, ma se fosse femmina?”
(Ancora lui, stizzito) “Femmina? Che discorsi, dovesse proprio essere femmina, la chiamo Benita, tutt’al più Rachele!”
E potrei continuare…
Come dite? Sì, forse avete ragione, questi dialoghi potrei essermeli inventati, ma non escludo che in qualche luogo e in qualche tempo possano essere realmente avvenuti.
Scelte fatte con superficalità, senza pensare che questi nomi potrebbero essere un peso, il primo peso che gli incauti genitori caricano sulle spalle dei loro figli.
Anche nell’assegnare i nomi agli animali domestici occorrerebbe riflettere. Ad esempio il mio vicino di casa ha chiamato Filippo il suo cane, un simpatico ma testardo (pare sia una caratteristica della razza) Jack Russel. Risultato: quando prova a chiamarlo l’animale nemmeno si volta, in compensano si girano tutti gli umani con quel nome che si trovano a transitare da quelle parti.
E scegliere il nome per un blog? Di certo sembrerebbe più semplice, ma...
Volevo trovare un titolo che permettesse di comunicarne in modo immediato la natura, descriverne cioé lo spirito ed anticiparne i contenuti.
Con la parola “Pensieri” ho volutamente scelto di essere vago perché assolutamente vari ed imprevedibili saranno gli argomenti. Riflessioni, frasi, storie, osservazioni su temi molto diversi ma con un unico denominatore comune: proposte originali e punti di vista controcorrente o comunque poco allineati.
Con la parola “Tisane” ho voluto richiamare l’immagine della calma e della pacatezza nell’esprimere idee ed opinioni, in alternativa alle modalità di comunicazione oggi prevalenti (urla e risse fino agli insulti); l’immagine della riflessione mentre sembra prevalere il concetto “prima parlo e poi penso”; l’immagine della pausa, cioè del fermarsi ogni tanto per ascoltare gli altri, ma prima di tutto per ascoltare noi stessi, perché abbiamo smesso di farlo con il rischio di non sapere più nemmeno chi siamo.
P_e_T
La decisione
Ieri sera, dopo giorni trascorsi nel dubbio, finalmente mi sono deciso: apro un blog!
Quando devo fare una scelta “sofferta”, sono solito procurarmi un foglio e, dopo aver tracciato una riga con la biro per dividerlo a metà, scrivere in testa alle due colonne:
“perché sì” – “perché no“.
E così ho fatto, anche in questo caso. Ho riempito il foglio, ma… niente!
Per ogni “voce” aggiunta a favore, ce n’era una contraria che la bilanciava!
Sembrava incredibile, ma le due colonne avevano sempre la stessa lunghezza. Ormai gli argomenti pro e contro si erano esauriti ed io continuavo a fissare quel pezzo di carta con le due colonne perfettamente allineate.
Poi, all’improvviso, ecco la soluzione, scritta proprio lì sul foglio ed io non l’avevo vista! Era semplicemente il titolo della seconda colonna, bastava aggiungere un punto interrogativo:”perché no?” Cioé perché non provarci, perché non mettere da parte dubbi e perplessità e tentare questa “piccola” impresa? Sono sempre in tempo – mi sono detto – a lasciare, a tornare indietro; ma perché rinunciare a priori?
Rinunciare, che parola triste, odora di rassegnazione, paura, sconfitta, e senza neppure combattere…
Tentare, invece, profuma di avventura, speranza, voglia di vita, una vita migliore…
Ed è così che tutto è cominciato…
P_e_T